CONTRATTO DI LAVORO SUBORDINATO A TEMPO DETERMINATO. IL PUNTO DELLA NORMATIVA IN MATERIA, ALLA LUCE DELLE NOVITA’ INTRODOTTE DALL’ART. 32 DELLA L. 183/2010 (CD. COLLEGATO LAVORO).
Prima di addentrarci nella riforma della materia dei contratti a termine, introdotta dall’art. 32 L. 183/2010 (collegato lavoro) è opportuno ripercorrere la legislazione in materia.
La disciplina del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato ha subito una significativa innovazione a seguito della entrata in vigore del Dlgs n. 368/2001 il quale, dal sistema della elencazione tassativa delle ipotesi di ricorso al contratto di lavoro a termine, come determinate dalla legge (art. 1 L. 230/1962) ovvero dai contratti collettivi di lavoro stipulati con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale, è passato alla introduzione di un sistema fondato sulla clausola generale delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, da porsi a base della apposizione della clausola del termine (art. 1 Dlgs 368/2001).
Tuttavia, la consolidata giurisprudenza, di legittimità e di merito, ha avuto modo di chiarire che al fine della stipulazione di un valido contratto di lavoro a termine dovrà essere fatto luogo alla specificazione, per iscritto, delle ragioni giustificatrici, affinché sia consentito al lavoratore l’accertamento nel concreto della sussistenza e veridicità delle predette ragioni, nonché dovrà essere fornita prova dal datore di lavoro, convenuto in giudizio dal lavoratore, della sussistenza e veridicità delle esigenze datoriali del termine.
Quanto alle conseguenze della inefficacia della clausola di apposizione del termine, in assenza di previsione legislativa in materia, la prevalente giurisprudenza e dottrina ritiene che la nullità della clausola determini la conversione ex tunc del contratto di lavoro a tempo determinato in contratto di lavoro a tempo indeterminato, in applicazione del principio generale, di cui all’art. 1419, comma 2, cc., di sostituzione di diritto della clausola nulla con la norma imperativa violata.
Ne discende che alla declaratoria di nullità della clausola appositiva del termine segue la riammissione del lavoratore nella postazione di lavoro, da ultimo occupata, a meno che questi non opti per la rassegnazione delle dimissioni, in assenza di gradimento per la ripresa del lavoro.
Infine, spetta al lavoratore riammesso in servizio il risarcimento del danno, da computarsi in ragione delle mensilità maturate dalla messa in mora del datore di lavoro fino alla effettiva ripresa del servizio, detratto l’eventuale aliunde perceptum (da intendersi quale reddito percepito dal lavoratore durante il periodo sopra indicato).
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In tale contesto normativo, una importante novità è stata introdotta dall’art. 32 della L. 183/2010 (collegato lavoro) rubricato “Decadenza e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato”, il quale, modificando l’art. 6, commi 1 e 2 L. 604/1966, ha fissato anche in materia di contratto a tempo determinato termini decadenziali, di seguito indicati:
– il contratto a termine deve essere impugnato entro 60 gg. dalla scadenza del termine (per il caso di pluralità di contratti a termine è ragionevole ritenere che la impugnazione possa essere effettuata alla scadenza dei 36 mesi ovvero alla scadenza dell’ultimo dei contratti, se reiterati oltre il triennio);
– il deposito del ricorso giudiziario dinanzi al Tribunale competente deve essere effettuato entro i successivi 270 gg. (salvo che il lavoratore non intenda chiedere il tentativo stragiudiziale di conciliazione ed arbitrato, secondo le indicazioni dell’art. 32 Collegato Lavoro).
La sopra citata novella legislativa trova applicazione nei confronti di tutti i contratti a termine, sia quelli in corso alla data di entrata in vigore della norma, sia quelli già cessati a tale data.
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Altra importante novità legislativa in materia di contratto a termine è stata introdotta dal comma 5 del cit. art. 32, il quale ha statuito che per i casi di conversione del contratto a tempo determinato “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità della ultima retribuzione globale di fatto (ridotto della metà per il caso di contratti o accordi collettivi che prevedano la assunzione di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie) avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 della Legge 15 luglio 1966 n. 604 (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’impresa, anzianità di servizio, comportamento e condizioni della parti)”.
La più accreditata e ragionevole interpretazione della citata norma, confortata dalla interpretazione suggerita dal Ministero del lavoro nel corso di audizioni, sembra essere quella che ritenga tale indennità risarcitoria sostitutiva della retribuzione maturata dal lavoratore nel periodo intercorrente tra la cessazione del rapporto e la ripresa del servizio, ferma restando la conversione del rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato”.
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Da ultimo, si osserva che il comma 7 del cit. art. 32 prevede espressamente che la nuova disciplina in materia di contratti a termine debba trovare applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della legge, con facoltà per il giudice di assegnazione di termine alle parti per la eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni.
Avv. Emanuela Manini
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